Il libro di Romina Gobbo “Ne uccide più la lingua che il Covid, La guerra delle parole” analizza il mutamento bellico del linguaggio sui media.

Il libro “Ne uccide più la lingua che il Covid, La guerra delle parole” della giornalista Romina Gobbo parla della comunicazione e del linguaggio giornalistico e istituzionale al tempo della pandemia da Coronavirus.
Dice Romina Gobbo:“All’inizio, si tendeva molto a minimizzare, si parlava poco più di un’influenza, da parte anche di persone autorevoli, poi siamo passati all’estremo, andando avanti, sembrava quasi che fossimo al tempo della peste.
Sono state utilizzate tantissime metafore tra cui quella che ha avuto maggior influenza è stata la metafora bellica ed è per questo che il sottotitolo del mio libro è: “La guerra delle parole”. La domanda era ma perché utilizziamo un linguaggio tratto dal mondo militare? Il lessico italiano è talmente povero che non sappiamo come definire un evento nuovo come lo era questo virus? Oppure in realtà c’era in qualche modo una volontà di creare una tensione? Io non do risposte nel libro, ognuno farà le sue riflessioni. Certo che un linguaggio che continuamente parla di guerra sicuramente crea una paura, questo ha fatto sì che la gente accettasse le restrizioni che sono state poste per evitare la diffusione del contagio. C’è un momento molto particolare, il 17 marzo, in cui il premier Giuseppe Conte dice proprio:”Siamo in guerra”. Una settimana prima l’aveva detto Macron e poi via via altri leader. Da quel momento i giornali cominciano ad utilizzare questo “siamo in guerra” in continuazione ed altri termini presi appunto dal linguaggio bellico, per cui abbiamo “killer”, “assedi”, “dobbiamo sfoderare l’artiglieria pesante”, “dobbiamo spuntare le armi”, “dobbiamo stare in trincea”, “avanzamento del contagio”. Ci sono certamente delle motivazioni storiche, da sempre le epidemie sono il nemico da combattere, intanto perché vengono da fuori, il nemico è sempre qualcosa che è altro da noi, per esempio l’influenza di Hong Kong oppure la Spagnola, che poi non veniva dalla Spagna ma dall’America e c’è anche il fatto che molto spesso le epidemie sono scoppiate all’interno degli eserciti. Il problema di una pandemia mediatica o infodemia è che dall’altra parte è veramente difficile capire quali sono le fonti autorevoli e quindi effettivamente farsi una corretta percezione del fenomeno”.
Il libro parla di stigmatizzazione, lo stereotipo del “cinese con la tosse” ha sostituito quello del “musulmano con lo zainetto” e ha dato adito a fenomeni di discriminazione razziale tali che l’OMS è dovuta intervenire richiamando tutti ad utilizzare un linguaggio più preciso. Romina Gobbo parla anche di “melassa mediatica” questo avviene quando tre ricercatrici italiane isolano il virus. E’qui il linguaggio diventa emotivo, vengono evidenziate le parole: donne, precarie, del sud.
Romina Gobbo ha scritto questo libro perché pensa che il giornalista si debba chiedere che cosa voglia dire e che cosa voglia affermare, tutto quello che viene scritto ha infatti delle ripercussioni importanti sui lettori.
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