Cronache dal Paradiso di Serena Dandini

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In questi giorni di pieno inverno quale cosa più piacevole che leggere un bel libro che ci fa evadere dal tran tran quotidiano. Serena Dandini con "Cronache dal Paradiso" (Einaudi) ci regala un libro pieno di fascino, romantico, ironico, avventuroso in cui la storia personale dell’autrice si intreccia con quella di donne e uomini che hanno inseguito un sogno, un luogo perfetto, un istante irripetibile, o anche una nostalgia, fino all’ossessione.

La memoria dell’infanzia, trascorsa in una villa del viterbese, è il filo rosso con cui Serena Dandini ci conduce nelle vite di personaggi famosi e misconosciuti che sono partiti per viaggi straordinari, a volte fisici, a volte mentali, guidati dall’aspirazione all’assoluto. Visiteremo giardini fantastici. Ci addentreremo nelle utopie di architetti, profumieri, amanti della musica. Ci stupiremo per il coraggio di Jeanne Baret, che nel Settecento, travestita da uomo, compie il giro del mondo con la spedizione di De Bougainville.

Guarderemo il vecchio Claude Monet, ormai quasi cieco, dipingere senza sosta le ninfee della sua casa di Giverny. Scopriremo con Agatha Christie «il lato oscuro delle piante». Accompagneremo Vladimir Nabokov a caccia di farfalle e Margaret Ursula Mee nella giungla amazzonica sulle tracce del fiore di luna, che sboccia una volta l’anno, di notte, per svanire all’alba. E infine torneremo nel Paradiso Perduto dell’autrice, a tirar le somme fra momenti dolorosi, bellissimi, struggenti.

Ecco un estratto del libro:

1. Prima che mio padre con l’abilità di un mago dissolvesse le fortune di famiglia, c’era una casa di campagna. Una grande villa per la precisione, che si ergeva su una collina circondata da un uliveto e da un boschetto di castagni oltre il quale si nascondevano delle cave di peperino. La facciata era maestosa ma tradiva un che di infantile, come se a progettarla fosse stato un architetto bambino che per prima cosa aveva disegnato un enorme orologio al centro del tetto spiovente. Il meccanismo, sofisticato ma sempre in ritardo, sovrastava tre piani di finestre dalle imposte verde sussidiario, mentre al pianoterra un portico con tre arcate decorate in marmo (peperino, naturalmente) si apriva su un giardino all’italiana in miniatura: il regno incontrastato della nonna Enrica. Tra le aiuole di fiori multicolor circondate dal rosmarino, sfuggiva all’ordine costituito un fitto cespuglio di ortensie: era quello il mio Paradiso. Lo ricordo gigantesco, ma forse ero io piccolina, le dimensioni dei luoghi dell’infanzia subiscono variazioni dovute alla nostra memoria di bambini. Mi ci rintanavo dentro quando giocavamo a nascondino: era una foresta misteriosa, nessuno mi trovava mai, o almeno cosí mi piace pensare seguendo il flusso rassicurante e truffaldino dei ricordi. Dopo averla ereditata dai nonni, papà, insieme alle due sorelle chiamate dai mezzadri «le contessine», era riuscito in pochi anni a dissipare in  allegria un ettaro alla volta, sino all’assalto finale che aveva inghiottito tutto.

Di quei luoghi che avevano assistito a matrimoni, battesimi e morti – insomma, a una discreta quantità di gioie e dolori – mi rimangono soltanto foto in bianco e nero oppure a colori sbiaditi simili ai filtri piú funebri di Instagram, che non a caso si chiamano Perpetua o Amaro. Quei reperti fotografici, trascinati per inerzia a ogni trasloco, ritraggono frammenti di estati senza fine trascorse ad arrampicarsi sugli alberi e a inseguire cani pezzati di cui ho dimenticato i nomi. Dispiace per i cani della nostra infanzia, presenze sentimentali purtroppo passeggere, ma indispensabili compagni di viaggio che rimpiangiamo molto piú dei luoghi che abbiamo abitato. Al di là di ogni retorica sul passato, lo so per certo che i luoghi non ci mancano. Qualche anno fa, scorrendo con avidità annunci immobiliari – una piccola perversione a cui non rinuncio anche se non devo cercare alcuna casa –, mi sono imbattuta nell’offerta esclusiva della villa di famiglia a una cifra notevole ma non impossibile. È bastato un breve consulto con mia sorella e mio fratello per capire che nessuno di noi aveva intenzione di ricomprarsi un ricordo. Eppure, per intere serate ci eravamo raccontati storie sul sapore delle castagne che raccoglievamo in autunno, facendo a gara nel riportare a galla aneddoti e dettagli. Era dal terrazzo di quella villa che mio fratello faceva volare i suoi aerei di balsa: impiegava settimane per costruirli, incollando meticolosamente minuscoli pezzi di compensato che per incanto davano vita a una struttura leggera che assomigliava allo scheletro di un dinosauro. Lo rivedo, armato di colla, ricoprire con delicatezza le sue creature con strati di sottile carta velina colorata, facendo particolare attenzione alle ali. Le ali sono sempre state il punto debole della sua sapienza aerodinamica.

Un lavoro immenso, per poi vederli schiantare in pochi secondi fra i broccoli dell’orto. – Non è vero, a volte volavano. – No, Ferdinando, non è mai successo. – Eppure ricordo benissimo che quello rosso un’estate ha preso il vento. Forse voi non c’eravate. – Forse… «La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla», scriveva Gabriel García Márquez. Non è che il desiderio a guidarci. E cosí, davanti alla possibilità di possedere di nuovo lo scenario dell’infanzia, senza ripensamenti ci siamo tirati indietro, spaventati. E non solo a causa del mutuo che avremmo dovuto affrontare. Sono sicura che non volevamo privarci del brivido egoista provocato dalla nostra memoria interna: oggi si chiama Random-access memory – in breve, Ram –, ma esisteva molto prima dei computer e ognuno di noi conserva la propria in un non ben determinato nascondiglio della mente. È a lei che affidiamo il compito di ricostruire la nostra storia, tagliando come in un film le parti piú noiose. Sul passato abbiamo un dominio assoluto e lo evochiamo come piú ci va a genio, meglio ancora se abbiamo perso le tracce dei luoghi che ci hanno visto crescere. Soltanto in questo modo possiamo riviverli a piacimento, è la nostra vita e nessuno può impedircelo.

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